Quando due anni fa era uscita di prigione per buona condotta, con un diploma da infermiera, Paula Cooper sembrava pronta ad una nuova vita ed, invece, si è sparata un colpo di pistola alla testa.
A trovarla senza vita fuori dalla casa dove abitava, la polizia.
Tra pochi mesi la libertà condizionata sarebbe finita e Paula Cooper, per cui negli anni Ottanta si mobilitò l’Europa e il Vaticano, sarebbe tornata ad essere una donna libera.
Paula aveva promesso di lavorare con “Journey of Hope”, l’organizzazione anti-crimine e anti-pena di morte del nipote della sua vittima Bill Pelke. Voleva spiegare ai giovani che il crimine non paga, che c’è sempre nella vita la possibilità di fare la cosa giusta. Ma qualcosa non ha funzionato.
Paula Cooper aveva 15 anni, 30 anni fa, quando assassinò una vecchietta, l’insegnante di religione Ruth Pelke, infierendo sulla vittima con 33 coltellate durante una rapina assieme a due amiche.
Le sarebbe toccata la sedia elettrica se non fosse stato per la mobilitazione internazionale a suo favore. Nel 1987 ci fu il passo di Papa Wojtyla con la richiesta che a Paula fosse risparmiata la vita. Il caso portò alla luce l’atrocità della legge dell’Indiana: ammetteva la pena di morte per bambini sopra i 10 anni. Solo nel 1989, dopo una sentenza della Corte Suprema che aveva abolito la pena di morte per gli under 16, la magistratura commutò la pena in 60 anni di prigione, ridotti poi a 27 per dimostrata buona condotta.
Contro la condanna a morte di Paula si era mossa anche l’Italia: su iniziativa dei radicali nacque il movimento “Non uccidere” ed un milione di firme raccolte da Ivan Novelli e Paolo Pietrosanti vennero portate all’Onu per implorare clemenza.
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